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Archive for the ‘A. P.’ Category

nonostanterivista segnala l’uscita del nuovo album di Jon Hughes “Roger White”.

Una grande opera di autentica sonorità rock-folk, l’ultimo lavoro di questo bravissimo autore irish-american.

Ascolta gratuitamente le canzoni del nuovo album cliccando sul link:  jonhughes.org

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Basta il testo


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“Manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase, e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa”

Fernando Pessoa

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di A. P.

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Sostenere l’incapacità della sinistra di interpretare il presente, in una parola sostenerne la crisi, sembra ormai un dato assiomatico. Eppure la ricerca delle ragioni di questa crisi e i tentativi messi in atto per il suo superamento spesso non fanno altro che avvicinare il punto di annichilimento totale: in una parola tendono ad essere ideologici, a favorire il nemico contro cui si dovrebbe combattere.

Affrontare la crisi della sinistra è un argomento complesso, ricco di prospettive diverse e ciascuna di esse non può che essere parziale, non può avere la pretesa di abbracciare tutta la complessità del fenomeno. Se la si affronta dal punto di vista della predisposizione di un programma economico definito, per esempio, la prospettiva sarà necessariamente limitata se si prescinde da altri contributi di natura sociologica, giuridica, filosofica; insomma, l’analisi complessiva richiede una sommatoria di analisi specifiche. Fatta questa doverosa premessa, mi accingo a riportare, modestamente, alcune brevi riflessioni su un tema preciso: il rapporto della sinistra con la violenza. Rapporto difficile quando uno dei due elementi, la violenza, viene rimosso perché troppo traumatico.

Un testo del 2004 intitolato Nonviolenza racchiude tre interventi rispettivamente di Fausto Bertinotti, Lidia Menapace e Marco Revelli. Nell’intervento di quest’ultimo, in particolare, si legge:

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«la violenza […] assunta come mezzo lecito (se non necessario) retroagisce sui risultati e sugli stessi soggetti che la impiegano, trasformandosi da fattore di accelerazione a principale ostacolo al raggiungimento del fine (un’umanità emancipata dal dominio dell’uomo sull’uomo, una società più giusta e solidale). La nonviolenza, al contrario, in quanto pratica che non si misura solo sul risultato (con una logica di efficienza), ma che impone a chi la adotta l’assunzione di un particolare stile di relazioni tra gli uomini, incorpora una forma di relazionalità che di per sé stessa anticipa l’obiettivo e lo realizza nel suo farsi. Presuppone un lavoro su sé stessi che prefigura per così dire l’uomo di domani, capace di coesistere pacificamente e solidalmente con gli altri. E in quanto tale sembra rimettere in gioco quegli obiettivi che il fallimento delle pratiche muscolari e di potere dispiegatesi nel Novecento e con esso cadute sembrava aver consegnato al mondo irreale dell’utopia»[1]

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Si tratta, indubbiamente, di una presa di posizione forte, di portata emblematica: la retroazione della violenza sui soggetti che l’hanno adottata e legittimata nel corso della propria azione politica, sostiene Revelli, va ad inficiare i risultati a cui tali soggetti aspirano. Ciò implica, contemporaneamente, un giudizio morale pesantissimo sull’utilizzo della violenza e sull’intero secolo appena trascorso. Come se, da un lato, fosse indipendente il contesto entro cui la violenza viene esercitata e, dall’altro, da bravi post-moderni, avessimo finalmente superato l’oscurantismo della vecchia politica conflittuale. Tale punto di vista, però, piuttosto diffuso nella prospettiva politica di molte componenti della sinistra post-novecentesca, non è stato altro che una sorta di simulacro teorico con cui si è tentata una fuoriuscita, possibilmente dignitosa e incruenta, dal dramma del totalitarismo sovietico (o più in generale dall’esperienza fallimentare del socialismo reale), proponendo una simil-cristiana e patetica pratica di purificazione dalle proprie colpe. Bisognava convincersi di essere non violenti per espiare tutto il sangue versato nel Novecento. Tutto questo mentre la sinistra riformista, ha pensato di abbandonarsi alla più perversa e distruttiva rincorsa del mito liberista, accompagnata dalla sensazione ansiogena di aver perso il treno della storia.

Teorica della non violenza, dunque, come simulacro da anteporre all’incapacità di rispondere ad un capitalismo che indubbiamente, almeno finora, si è dimostrato in grado di annientare i suoi avversari; se tale teorica, da un lato, avrebbe l’ambizioso compito di chiudere i conti con gli errori del passato (si pensi all’esplicito rifiuto dello stalinismo e l’abbraccio incondizionato della non violenza fatto dal leader di una delle principali forze della sinistra radicale), dall’altro lato, si illude di sistemare il proprio rapporto con la contemporaneità, inondando la pratica politica con buonismo ambientalista, teorie reazionarie sulla decrescita, movimentismo pacifista. Omettendo una riflessione coraggiosa sulla violenza che non fosse intrisa di sentimentalismo e che superasse decisamente il lutto per la morte dell’utopia, la sinistra ha realmente vissuto, finora, in una dimensione irreale. Eppure la violenza si è in ogni caso ripresentata, ha fatto e continua a fare numerose comparse: si pensi alle rivolte nei paesi del Nord Africa, o la dura battaglia operaia di Pomigliano e Mirafiori, dove in gioco c’è, nientemeno, la resistenza alla brutalità del capitale, quello sì estremamente violento, sui corpi degli operai. Non aver fatto i conti con la violenza ha portato alla violenza senza senso delle banlieues parigine, alla rivolta senza programma politico; e le rivolte al di fuori del politico non possono che essere definite dal potere come criminali. Aver condannato, o addirittura ignorato, la violenza non l’ha espunta dalla storia ma ha solo consentito che essa si ripresentasse senza possibilità di mediazioni e canalizzazioni, come mera volontà distruttiva, sintomo della frustrazione e dell’abbandono più atroci.

Violenza è conflitto. Conflitto che per essere efficace va incanalato, alimentato, portato sul livello strutturale del conflitto capitale-lavoro, esteso ad una dimensione di massa, organizzato da un soggetto collettivo. Ecco che il Novecento ritorna, più vivo e vegeto che mai, mai morto ma solo nascosto da un’ideologia che ci racconta di miti post-moderni, di conflitti ormai tutti giocabili soltanto sulla sovrastruttura culturale, sull’eutanasia, sull’umanità dell’embrione, sui diritti civili. La lotta di classe è una battaglia, non un duello fra due cavalieri in grado di darsi reciproca soddisfazione, è una guerra dell’inimicizia assoluta che non conosce limiti

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«Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze. La sola questione è dunque questa: esiste un nemico assoluto, e chi è in concreto?»[2]

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Ora, sia chiaro, non si tratta qui di considerare l’atto violento come programma politico necessario, non si tratta di teorizzare la rivoluzione e le tattiche per attuarla, né si tratta di riabilitare la violenza innegabile del socialismo reale novecentesco. Si tratta di distinguere la violenza del capitale da quella di chi a tale violenza si ribella: c’è uno squilibrio di fondo fra le due parti che de-legittima la violenza del capitale e legittima la violenza/conflitto di chi si oppone. Si tratta, inoltre, di prendere atto di una ebollizione sociale ormai costante che deve essere governata da sinistra, chiusi finalmente i conti con la storia; di prendere atto, inoltre, della violenza come possibilità assoluta, nel senso che è in grado di realizzarsi comunque, anche a fronte di una rimozione collettiva, come violenza divina e purificatrice, non portatrice di nuovo ordine[3].

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«Che cos’è allora la violenza divina? Il suo luogo può essere definito in maniera molto precisa. Badiou ha già elaborato l’eccesso costitutivo della rappresentazione rispetto al rappresentato: a livello della Legge, il potere dello Stato rappresenta solamente gli interessi dei suoi soggetti; li serve, è responsabile nei loro confronti ed è esso stesso soggetto al loro controllo. Tuttavia, a livello del Super-Io sottostante, il messaggio pubblico di responsabilità e via di seguito è abbinato all’osceno messaggio dell’esercizio del potere senza condizioni: le leggi non mi vincolano realmente, posso farti QUALUNQUE COSA IO DESIDERI, ti posso considerare colpevole se questa è la mia decisione, ti posso distruggere se questo è il mio desiderio… Quest’eccesso osceno è un necessario elemento costitutivo della nozione di sovranità; l’asimmetria è in questo caso strutturale, la legge può cioè conservare la propria autorevolezza solo se i soggetti sentono in essa l’eco dell’autoaffermazione senza condizioni. E la “violenza divina” del popolo è correlata a quest’eccesso di potere: ne è la controparte, lo prende di mira e lo sovverte»[4]

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Non abbiamo bisogno di una politica che si cimenti con l’individualità del singolo alle prese con l’intimo lavorio sul proprio sé; non abbiamo bisogno della perdente solidarietà di persone volenterose, intellettualmente profonde e civilmente indignate: necessitiamo di un nuovo principio di fratellanza, di una nuova energia collettiva che alimenti quella debole forza messianica[5] che ogni generazione può vantare, in grado di essere il momento fondativo in cui risulti finalmente intelligibile il senso eterno e mistificato della storia: la storia come narrazione di coloro che hanno sempre vinto e dominato, narrazione in cui la dignità degli antenati asserviti rischia di scomparire inghiottita dalle falsità dell’ideologia dei vincitori[6].

È venuto il momento, perciò, come dice Mario Tronti, di chiudere il dopo ’89 perché al capitale non fanno paura le politiche delle sinistre attuali, spesso accolte nei palazzi di governo, bensì le lotte operaie, il conflitto strutturale sul lavoro. E al capitale bisogna fare paura[7].

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note

[1] F. Bertinotti, L. Menapace, M. Revelli, Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo, Fazi, Roma 2004.

[2] C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.

[3] W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 2007. Cfr. anche S. Zizek, Dalla democrazia alla violenza divina, in AA.VV. In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma 2010.

[4] S. Zizek, Dalla democrazia alla violenza divina, cit.

[5] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.

[6] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit.

[7] M. Tronti, Non si può accettare, Ediesse, Roma 2009, e M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma 2009.

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